E’ LICENZIABILE IL LAVORATORE CHE DENUNCIA SUI SOCIAL LA MANCANZA DI DPI AZIENDALI?

14.01.2024

A cura dell'Avv. MicheleAlfredo Chiariello

TAGS: DISPOSITIVI PROTEZIONE INDIVIDUALE - DPI - SICUREZZA SUL LAVORO - SOCIAL - LAVORATORE SINDACALISTA -

INDICE

1)INTRODUZIONE;

2)IL RUOLO ATTIVO DEL LAVORATORE NELLA CAMPO DELLA SICUREZZA;

3)SUL DIRITTO/DOVERE DI DENUNCIA DELLA MANCANZA DI DPI DA PARTE DEL LAVORATORE;

4)I POST DENIGRATORI SUI SOCIAL. CONSEGUENZE SUL RAPPORTO DI LAVORO;

5)DIRITTO DI CRITICA OPPURE OBBLIGO FIDUCIARIO? COSA PREVALE?

6)IL DIRITTO DI CRITICA DEL LAVORATORE SINDACALISTA;

7)IL DIRITTO DI CRITICA ED IL RUOLO ATTIVO DEL LAVORATORE NELLA GESTIONE DELLA SICUREZZA;

8)CONCLUSIONI.-

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INTRODUZIONE

Nel presente articolo verrà trattata la questione della legittimità, o meno, di un licenziamento intimato ad un lavoratore, a seguito di un post pubblicato, dallo stesso, su un social, a mezzo del quale aveva denunciato la mancanza di dispositivi di protezione individuali.-

Alla luce del nuovo ruolo, attivo, del lavoratore, all'interno del modello sicurezza post d.lgs 81/2008, è legittimo il licenziamento di un lavoratore per aver "denunciato" sui social un inadempimento datoriale? Diritto di critica o diffamazione? Un "post" può fratturare irreversibilmente il rapporto fiduciario tra datore e lavoratore?

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IL RUOLO ATTIVO DEL LAVORATORE NELLA CAMPO DELLA SICUREZZA

L'attuale normativa sulla sicurezza sul lavoro ha profondamente modificato il rapporto tra datore e dipendente.-

Infatti, il legislatore, se da un lato ha tenuto ben fermi gli obblighi datoriali, ha cercato di coinvolgere attivamente il lavoratore nella gestione della sicurezza, attraverso una disciplina "che mira ad indurre il datore di lavoro ad un comportamento virtuoso in materia prevenzionistica[1]".-

Sul punto, come sostenuto da autorevole dottrina[2]: "Per decenni è stato usuale sostenere che il lavoratore fosse un mero creditore di sicurezza. Questa affermazione deve ormai essere riesaminata. Oggi "ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni". Se ne desume un nuovo principio: "la trasformazione del lavoratore da semplice creditore di sicurezza nei confronti del datore di lavoro a suo compartecipe nell'applicazione del dovere di fare sicurezza".-

Anche la giurisprudenza è aderente: "latrasformazione del lavoratore da semplice creditore di sicurezza nei confronti del datore di lavoro a suo compartecipe nell'applicazione del dovere di fare sicurezza, comporta che il lavoratore diventa garante, oltre che della propria sicurezza, anche di quella dei propri compagni di lavoro o di altre persone presenti". - (Cass.Pen. n. 36452/2014)

Ancora prima, però, il legislatore nella legge n. 300/1970 - lo Statuto dei Lavoratori - aveva già previsto questa situazione di "collaborazione" all'interno dell'art 9, che garantiva, e garantisce, il diritto dei lavoratori, mediante loro rappresentanze, di controllare l'applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.-

Di fatto, il lavoratore assume posizioni di sicurezza anche nei confronti degli stessi colleghi di lavoro; però, non bisogna estremizzare questo concetto, ma, anzi, delimitarne i confini applicati; infatti, non è ipotizzabile che al lavoratore vengano attribuiti dei doveri di intervento in supplenza delle inerzie e/o omissioni datoriali.-

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SUL DIRITTO/DOVERE DI DENUNCIA DELLA MANCANZA DEI DPI DA PARTE DEL LAVORATORE

Il nuovo ruolo, attivo, del lavoratore, quale collaboratore nella gestione della sicurezza aziendale lo facoltizza, anzi lo obbliga "a segnalare immediatamente al datore di lavoro (o ai preposti) le deficienze dei mezzi e dei dispositivi".-

Se al lavoratore è riconosciuto il diritto di rifiutare legittimamente di eseguire la prestazione[3], se per la stessa non è garantita la sicurezza, appare fisiologico, riconoscere allo stesso il diritto (rectius obbligo) di segnalazione[4].-

La inosservanza di tale obbligo, espone il lavoratore reticente, ed inadempiente, a profili penali[5], oltre quelli rilevanti sotto il profilo disciplinare.-

[4]

I POST DENIGRATORI SUI SOCIAL. CONSEGUENZE SUL RAPPORTO DI LAVORO

Sotto il profilo penale, la giurisprudenza è assolutamente consolidata nel ritenere che la pubblicazione di un messaggio offensivo su social network integri il reato di diffamazione aggravata ex art. 595, 3° comma, c.p., stante la sua potenziale diffusione ad un numero indeterminato o, comunque, quantitativamente apprezzabile di persone.-

L'applicazione di detto principio all'universo giuslavoristico ha portato a ritenere legittimo il licenziamento irrogato per la pubblicazione[6] di post offensivi o denigratori nei confronti di datore di lavoro (ex plurimis Cass. n. 10280/2018)

Come si concilia la libertà di espressione del lavoratore e la tutela degli interessi datoriali?

Oggettivamente, la condotta del lavoratore che denigra il datore di lavoro – ledendolo – sui social è passibile di sanzioni disciplinari, finanche quella espulsiva.-

Infatti, se un lavoratore, come ogni soggetto, è titolare del diritto inalienabile della libertà di pensiero[7], garantito dall'art. 21 della Costituzione, è, altresì, vero che, anche fuori dal luogo di lavoro, lo stesso ha un obbligo di rispetto nei confronti del datore, che mantiene l' esercizio del potere direttivo, il potere di controllo e quello disciplinare.-

Tralasciando in questo momento le modalità[8] con le quali il datore possa venire a conoscenza di questi post diffamatori – circostanza che, però, è molto importante dal punto di vista della regolarità della procedura disciplinare – bisogna precisare che i provvedimenti sanzionatori devono essere applicati con un principio di gradualità, in relazione alla gravità, recidività, della mancanza, o al grado, della colpa.-

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DIRITTO DI CRITICA OPPURE OBBLIGO FIDUCIARIO? COSA PREVALE?

In un velocissimo excursus storico/giurisprudenziale (di legittimità), a proposito del rapporto tra diritto di critica ed obbligo fiduciario, si può riassumere quanto segue:

  • Sin da Cass. n. 1173/1986 si sono elaborate regole, analoghe a quelle stilate per l'esercizio del diritto di cronaca, tese a contemperare il diritto stabilito dall'art. 21 Cost. con altri diritti concernenti beni di pari rilevanza costituzionale, tra i quali, in particolare, i diritti della personalità all'onore ed alla reputazione, stabilendo che: "Il comportamento del lavoratore, consistente nella divulgazione di fatti ed accuse, ancorchè vere, obiettivamente idonee a ledere l'onore o la reputazione del datore di lavoro, esorbita dal legittimo esercizio del diritto di critica, quale espressione del diritto di libera manifestazione del proprio pensiero, e può configurare un fatto illecito, e quindi anche consentire il recesso del datore di lavoro ove l'illecito stesso risulti incompatibile con l'elemento fiduciario necessario per la prosecuzione del rapporto, qualora si traduca in una condotta che sia imputabile al suo autore a titolo di dolo o di colpa, e che non trovi, per modalità ed ambito delle notizie fornite e dei giudizi formulati, adeguata e proporzionale giustificazione nell'esigenza di tutelare interessi di rilevanza giuridica almeno pari al bene oggetto dell'indicata lesione";
  • successivamente, si è specificato che l'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore, con modalità tali che, superando i limiti del rispetto della verità oggettiva, si traducono in una condotta lesiva del decoro dell'impresa datoriale, suscettibile di provocare, con la caduta della sua immagine, anche un danno economico in termini di perdita di commesse e di occasioni di lavoro, è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere scaturente dall'art. 2105 c.c., e può costituire giusta causa di licenziamento (Cass. n. 19092/2018);
  • ancora si è affermato (Cass. n. 18176/2018) che l'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica delle decisioni aziendali, sebbene sia garantito dall'art. 21 Cost., incontra i limiti della correttezza formale, che sono imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente garantita (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana, sicchè, ove tali limiti siano superati, con l'attribuzione all'impresa datoriale, od ai suoi rappresentanti, di qualità apertamente disonorevoli, di riferimenti volgari e infamanti e di deformazioni tali da suscitare il disprezzo e il dileggio, così come l'attribuzione di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore può costituire giusta causa di licenziamento, pur in mancanza degli elementi soggettivi ed oggettivi costitutivi della fattispecie penale della diffamazione.

Se associamo quanto poc'anzi scritto con altra pronuncia della Cassazione, vale a dire la n. 1379/19, tutto diventa ancora più chiaro: "Il diritto di critica può ritenersi legittimo ove esercitato nel rispetto dei canoni di pertinenza e continenza, formale e sostanziale. In particolare, la critica deve rispondere ad un interesse meritevole di tutela del lavoratore e, quindi, concernere direttamente o indirettamente le condizioni del lavoro o sindacali (pertinenza), deve conformarsi nell'esposizione a canoni di correttezza, misura e civile rispetto della dignità del datore di lavoro senza eccedere nell'attribuzione di qualità apertamente disonorevoli, in affermazioni ingiuriose ovvero in offese meramente personali (continenza formale) e, ove consista nell'attribuzione al datore di lavoro di determinati fatti, deve rispondere a verità, quanto meno secondo il prudente apprezzamento soggettivo del lavoratore (continenza sostanziale). Il superamento di tali limiti, anche solo uno, rende la condotta lesiva dell'onore datoriale non scriminata dal diritto di critica e suscettibile di rilievo disciplinare, in quanto contraria al dovere di fedeltà sancito dall'art. 2105 c.c.".-

La Cassazione, sentenza n. 113/2020, ha risolto definitivamente la questione : "In tema di rapporto di lavoro subordinato, l'esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è legittimo se limitato a difendere la propria posizione soggettiva, nel rispetto della verità oggettiva, con modalità e termini inidonei a ledere il decoro del datore di lavoro o del superiore gerarchico e a determinare un pregiudizio per l'impresa, rilevando i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio."-

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IL DIRITTO DI CRITICA DEL LAVORATORE SINDACALISTA

Per completezza deve essere evidenziato, poi, che nell'ipotesi di critica, espressa da lavoratore con funzioni di rappresentanza sindacale all'interno dell'azienda, lo stesso goda di un'ulteriore scudo difensivo costituito dall'art. 39 Costituzione, nel momento in cui l'espressione di pensiero è finalizzata al perseguimento di un interesse collettivo, sicchè si è affermato che il lavoratore sindacalista è titolare di due distinti rapporti con l'imprenditore: come lavoratore, in posizione subordinata con il datore di lavoro, e come sindacalista, invece, in una posizione parificata a quella della controparte (ex plurimis Cass 21910/2018).-

Particolarmente importanti sono le – non recentissime, ma attuali – decisioni della suprema Corte (Cass. n. 11436/1995 e n. 7091/2001) che avevano affermato il seguente principio "il dipendente-rappresentante sindacale si trova in posizione paritetica con il datore di lavoro quando esercita il suo diritto di critica in tale qualità: «Il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale se, quale lavoratore subordinato, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, si pone, in relazione all'attività di sindacalista, su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall'art. 39 Cost., non può in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro essere subordinata alla volontà di quest'ultimo. Consegue che la contestazione dell'autorità e della supremazia del datore di lavoro siccome caratteristica della dialettica sindacale, ove posta in essere dal lavoratore sindacalista e sempreché inerisca all'attività di patronato sindacale, non può essere sanzionata disciplinarmente".-

Ancora sul punto : "In tema di licenziamento per giusta causa di lavoratore sindacalista, il giudice del merito, nel valutare se le espressioni usate dal lavoratore in un contesto di conflittualità aziendale oltrepassino i limiti di un corretto esercizio delle libertà sindacali - e quindi siano lesive del rapporto di fiducia con il datore di lavoro - deve accertare se le stesse non costituiscano la forma di comunicazione ritenuta più efficace ed adeguata dal sindacalista in relazione alla propria posizione in quel contesto. In tal caso infatti le suddette espressioni non si prestano, in quanto manifestazione di una lata responsabilità politico - sindacale, ad esser valutate con il parametro dell'inadempimento nei confronti del datore di lavoro dovuto a lesione dell'altrui sfera giuridica nell'esercizio di un diritto di rilevanza costituzionale." (Cass 9743/2002)

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IL DIRITTO DI CRITICA ED IL RUOLO ATTIVO DEL LAVORATORE NELLA GESTIONE DELLA SICUREZZA

Se, come detto, il legislatore ha "responsabilizzato" il lavoratore affidandogli un ruolo "attivo" nella gestione della sicurezza sul lavoro, come si conciliano i derivanti obblighi – la cui inosservanza lo espone a sanzioni amministrative, reati ed illeciti disciplinari – con l'obbligo di fedeltà ex art. 2105 c.c.?

Sul punto, emblematica, anche per le espressioni usate, è la pronuncia della Cassazione n. 4125/2017 (ma anche 22375/2017 e 996/2017), che tanto stabilisce : "In tema di rapporto di lavoro subordinato, l'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 c.c., interpretato alla luce dei canoni generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., non può essere esteso sino ad imporre al lavoratore di astenersi dalla denuncia di fatti illeciti che egli ritenga essere stati consumati all'interno dell'azienda, giacché in tal caso si correrebbe il rischio di riconoscere implicitamente una sorta di "dovere di omertà" che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento" (ex plurimis Cass 7499/2013).-

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CONCLUSIONI

In conclusione, il lavoratore che denuncia una situazione di inosservanza, in generale, datoriale, in particolare delle misure di sicurezza, non deve essere identificato quale potenziale sovversivo, anche alla luce del nuovo ruolo assunto all'interno della gestione del rischio, che lo obbliga a denunciare una situazione di pericolo anche solo potenziale per l'incolumità dei lavoratori.-

Tale regola vale anche se la denuncia avviene in sedi poco "istituzionali", come un social, purchè vengano rispettati i criteri ed i requisiti di forma e sostanza descritti.-

NOTE

[1] Passo trattato dall'articolo "L'obbligo di segnalare deficit della sicurezza in azienda a dieci anni dal d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81", a cura di Stefano Maria Corso.-

[2] Vale a dire dall'ex Magistrato Raffaele Guarriniello, in "La sicurezza sul lavoro al tempo del coronavirus", ebook del 2020 edito dalla Wolters Kluwer Italia S.r.l-.

[3] Ove il rifiuto della prestazione, opposto dal lavoratore al datore di lavoro, sia giustificato dall'inadempimento di quest'ultimo alle obbligazioni di sicurezza che sono a suo carico, ai sensi della normativa vigente nonché dell'art. 2087 c.c., esso non viene a costituire comportamento sanzionabile.-

[4] Condizione necessaria per la legittimità del rifiuto è che esso "sia conforme a buona fede e non pretestuosamente strumentale all'intento di sottrarsi alle proprie obbligazioni contrattuali".

[5] Consistente nella "posizione di garanzia" ex art 40 cp, assunta, di fatto, nei confronti degli altri lavoratori, con la doverosa precisazione che "l'inosservanza delle norme di prevenzione da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti e dei preposti ha valore assorbente rispetto al comportamento dell'operaio, la cui condotta può assumere rilevanza ai fini penalistici solo dopo che da parte dei soggetti obbligati siano adempiute le prescrizioni di loro competenza" (Cass. pen., n. 3448/2007).-

[6] Principio non applicabile nel caso di chat private, tra le quali rientra, secondo la recente giurisprudenza WhatsApp: "I messaggi condivisi in un gruppo c.d. chiuso, quindi non pubblico, attraverso il social denominato WhatsApp sono equiparabili a corrispondenza privata e, pertanto, non possono configurare atti idonei a comunicare o diffondere all'esterno affermazioni offensive, discriminatorie o minatorie, con conseguente insussistenza del fatto addebitato e illegittimità del licenziamento irrogato". (Tribunale Firenze Sez. lavoro, 16/10/2019), oggetto di altro lavoro qui consultabile 

[7] L'art. 1 dello Statuto dei Lavoratori così recita "I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge".-

[8] Ricordando solo l'enorme differenza fra "controlli difensivi" a tutela, per esempio, del patrimonio aziendale e controllo datoriale voluttuario, persecutorio, in danno di un lavoratore sui social network, magari cercando di sanzionarlo al primo errore…

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